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Introduzione
Il settore della moda e del tessile, oltre a provocare un elevato consumo di risorse e materie prime, rappresenta oggi la seconda industria più inquinante nel mondo, seconda soltanto all’industria petrolifera. Per dare un’idea grossolana di questi aspetti bastano alcuni esempi: la produzione di 1 kg di cotone ( che a grandi linee rappresenta quanto necessario per creare una t-shirt o un paio di jeans) richiede più di 11.000 litri di acqua ( dettagli su come questo consumo è ripartito tra le varie fasi di produzione possono essere trovate sul sito Nonsprecare). La produzione di cotone è una delle coltivazioni che richiede un elevato consumo di acqua ( attualmente rappresenta il 2.6% del consumo totale di acqua). Inoltre per aumentarne la produzione sono utilizzati elevati volumi di pesticidi e fertilizzanti che contribuiscono all'inquinamento delle acque sotterranee e dell'aria, nonché la riduzione della fertilità del suolo e provocano danni alla salute dei lavoratori. Per avere un’idea del livello di inquinamento prodotto la coltivazione del cotone è responsabile del 22,5% degli insetticidi usati in tutte le coltivazioni mondiali e del 10% dei pesticidi. Analogamente la trasformazione di materie prime in tessuti prevede in certi casi l’utilizzo di circa 8000 sostanze chimiche spesso particolarmente inquinanti.
La figura 1 riassume in forma grafica queste problematiche presenti oggi nel mondo del fashion e del lusso, che evidenziano la necessità di organizzare il settore secondo nuovi modelli che siano sostenibili da un punto vista ambientale e sociale.
Figura 1. Le principali problematiche ambientali e social dell’industria del fashion.
Fast fashion
Negli ultimi decenni si è affermato nel campo della moda il fenomeno del “fast fashion” ( moda veloce) , in cui le nuove collezioni di un brand vengono disegnate e lanciate sul mercato una di seguito all’altra al ritmo spesso di una/due settimane a costi molto ridotti. Zara, H&M, Mango, Esprit, sono solo alcuni dei brand in ambito moda che seguono questo modello e nel giro di pochi anni sono riusciti ad imporre questa nuova tendenza. Zara, ad esempio propone settimanalmente nuovi stili attraverso una forte ottimizzazione dei processi che vanno dal design alla produzione, fino alla distribuzione nei propri store; allo stesso modo Bershka, H&M, Topshop e Pull&Bear sono alcuni tra gli esempi di brand conosciuti e diffusi che fanno della velocità e dei prezzi stracciati i propri punti di forza. Questa situazione mette spesso in difficoltà anche i brand più affermati abituati a due collezioni all’anno.
Il termine fast fashion fu utilizzato la prima volta dal New York Times nel 1989 in un articolo dedicato all’apertura del primo negozio Zara a New York per evidenziare le caratteristiche della produzione veloce di nuovi modelli, stimata in 15 giorni dalla sua ideazione alla sua presenza nel negozio. In realtà alcuni aspetti del cosiddetto fast fashion sono già presenti nel mondo della moda fin dalla sua nascita nel XIX secolo , come evidenziato in un articolo della rivista Fashionista.
Il modello fast fashion si basa sostanzialmente su seguenti fattori:
- tempi brevi di creazione di una collezione ( una o al massimo qualche settimana);
- cicli di vendita al consumatore di una collezione temporalmente brevi ( meno di sei mesi, ma spesso anche una/due settimane) per poter presentare varie collezioni in un tempo ridotto contrariamente a quanto succede nella moda più classica ( in cui generalmente una collezione ha un tempo di vita che varia varia tra sei mesi e un anno);
- costi aziendali ridotti;
- prezzi bassi al consumatore per consentire un acquisto di massa dei prodotti .
Il fast fashion ha avuto come merito di consentire a molti di vestirsi bene seguendo le ultime tendenze della moda ( si parla spesso di democratizzazione della moda), ma nello stesso tempo ha prodotto la “cultura dell’usa e getta”: i capi di abbigliamento hanno spesso un costo così basso che possono essere usati poche volte e poi buttati via. Ogni anno sono acquistati nel mondo oltre 150 miliardi di indumenti nuovi, che equivale a fornire ogni anno circa 20 indumenti nuovi a ogni abitante del pianeta. Questi dati forniscono un’idea dello spreco di risorse e delle distorsioni prodotte da questo modello-
L’utilizzo di materiali a basso costo, necessario per ridurre i costi, e l’esigenza di produrre in tempi ridotti comporta l’utilizzo di materiali scadenti, fortemente inquinanti e il consumo di una notevole quantità di materie prime. Il quotidiano britannico The Guardian riporta alcuni dati raccolti dalla Defra (Department for Environment, Food and Rural Affairs) secondo cui il fast fashion produce ogni anno oltre 3 milioni di emissioni di diossina e in alcuni casi gli articoli contengono sostanze nocive per chi li indossa a causa delle sostanze utilizzate e di processi di produzione non ottimizzati. Secondo quanto riporta il Center for Environmental Health, alcune note catene d'abbigliamento come Charlotte Russe, Wet Seal e Forever21 vendono ancora borse, cinture e scarpe con livelli di piombo più alti del consentito, nonostante abbiano firmato anni fa un accordo per limitare l'uso di metalli pesanti nei loro prodotti ( huffingtonpost.it).
Slow fashion
In contrapposizione a questo fenomeno è nato il concetto di “slow fashion”. La definizione di “slow fashion” fu introdotta dalla designer di moda Kate Fletcher che utilizzò questo termine per indicare un tipo di produzione e consumo in contrasto col “fast fashion” . Il concetto di slow fashion viene anche indicato con altri termini ( più o meno equivalenti), quali moda sostenibile, eco-fashion e moda eco-solidale. Per avere una definizione abbastanza stringente di che cosa si intende per slow fashion viene riportata la definizione su Wikipedia : la moda eco-solidale si avvale di “materiali di riciclo e prodotti naturali per promuovere un basso impatto ambientale. Un prodotto per essere ecosostenibile, dovrebbe essere locale, quindi prodotto in loco, avere un design semplice, essere durevole, essere costituito da materiali naturali e riciclabili e packaging dovrebbe essere ridotto all'essenziale”.
Lo slow fashion pone perciò l’accento sui seguenti elementi( figura 2):
- la sostenibilità ambientale sia attraverso l’utilizzo di prodotti naturali e il riciclaggio, sia mediante processi di produzione “locali” che minimizzano la mobilità delle merci ( e quindi del relativo inquinamento;
- la sostenibilità sociale che tenga conto delle condizioni dei lavoratori, eviti il lavoro minorile e sottopagato, valorizzi l’impiego e le competenze di manodopera locale, e investa con una visione a medio e lungo in manodopera nei paesi in via di sviluppo ( Africa, Asia,…);
- l’etica aziendale e i rapporti con i propri collaboratori: filiera trasparente, filiera corta, compensi equi, valorizzazione delle maestranze artigianali locali e in generale tutto ciò che riguarda il commercio equo solidalela qualità del prodotto che deve avere una vita sufficientemente lunga contrariamente al fast fashion che pone l’attenzione sulla quantità;
- il consumo consapevole in cui l’utente finale pone l’accento sulla qualità, sul riciclaggio di abiti usati, sull’acquisto di capi di abbigliamento “utili” e sul rispetto delle condizioni di sostenibilità ambientale e sociale dell’azienda produttrice. Questo aspetto è legato al comportamento del consumatore, ma anche alle politiche di marketing delle aziende.
Figura 2 – Il processo dello slow fashion
Accanto a questi fattori ( e strettamente integrati con essi, in particolare con sostenibilità ambientale e consumo consapevole) è necessario che le aziende ( e i consumatori) pongano un’attenzione ai concetti di riuso, riciclo e risparmio ( dal report “Sostenibilità: moda, Cosa significa, come si applica, dove sta andando l’idea di sostenibilità nel sistema moda”, a cura di Clemente Tartaglione, Fabrizio Gallante, Gianmarco Guazzo):- Riuso: significa riutilizzare prodotti in altri contesti ( mercati, tipologie di consumatori, settore della moda,…). Il riuso rappresenta l’opposto del concetto di “usa e getta”. Il riuso è notevolmente cresciuto nel settore moda negli ultimi anni.
- Riciclo: riguarda i prodotti, scarti e/o rifiuti di una società e la loro trasformazione per ri-inserirli in nuovi processi produttivi e quindi consentire un nuovo ciclo di vita. Questo processo può portare a notevoli guadagni da un punto di vista ambientale; per fare un esempio, nel settore moda per ogni kg riciclato si risparmiano 6.000 Litri di Acqua, 3,6 Kg di CO2, 0,3 Kg di fertilizzanti e 0,2 Kg di pesticidi.
- Risparmio e riduzione: si riferisce sia alla riduzione nell’utilizzo di materie prime necessarie per la produzione , sia dei consumi energetici, sia dell’ottimizzazione di tutti i processi produttivi.
Figura 3. Lo sviluppo sostenibile
Il sistema della moda è generalmente strutturato nelle seguenti fasi ( figura 4) :
• Design.
• Produzione fibra ( o acquisizione materie prime o textile production)
• Produzione abbigliamento ( garment production)
• Distribuzione
• Retail
• Consumatore
• Rifiuti
Tutte le fasi possono portare alla produzione di rifiuti e a processi di inquinamento ambientale.
Figura 4 . Le fasi del prodotto moda ( ladyborsa,com)
Tuttavia, attraverso un opportuno disegno di tutte le fasi del processo si può arrivare a creare un sistema senza scarti ( concetto di economia circolare) come mostrato schematicamente nella figura 5. In particolare nello slow fashion le precedenti fasi dovrebbero svilupparsi secondo le seguenti indicazioni.
Design. La fase di design e progettazione rappresenta un elemento critico di tutto il processo; essa deve minimizzare gli sprechi e ottimizzare le risorse, ma contemporaneamente deve definire il riutilizzo di indumenti e scarti una volta cessato il loro utilizzo ( no waste)
Produzione Fibra. La produzione della fibra rappresenta una delle fasi più critiche da un punto di vista ambientale. Per il concetto di slow fashion è necessario l'utilizzo di materiali ecocompatibili quali per esempi, cotone organico, bambù, canapa . Inoltre gli indumenti prodotti con fibre ( ad esempio con cotone biologico) devono essere recuperati alla fine dell’utilizzo per le produzione di altri capi di abbigliamento.
Produzione abbigliamento. In questa fase deve essere ottimizzato l’utilizzo di materie prime, energia e acqua nei processi di produzione e la riduzione ( eliminazione) dei fattori inquinanti in particolare per la colorazione e le rifiniture utilizzando ad esempio coloranti naturali
Distribuzione. Il processo della distribuzione dei prodotti deve minimizzare i meccanismi di trasporto responsabili dell’aumento di CO2 durante le attività di creazione e produzione cercando di favorire una produzione locale e una supply chain locale.
Retail. Il punto vendita ha un ruolo importante perché rappresenta il punto di contatto con il consumatore finale. Oltre a sensibilizzare l’utente sulla qualità dei prodotti, il punto vendita nel futuro farà da tramite per l’up-cycling ( riciclaggio creativo, cioè riconvertire i materiali di prodotti inutilizzati per dargli nuova vita ), per l’opportunity shopping ( op-shopping, cioè diventare veri e propri "grandi magazzini dell'usato" che offrono ai privati un servizio di deposito gratuito per vendere con un sistema semplice ed efficace tutte quelle cose che non servono più o di cui ci si deve sbarazzare)e per la riconversione.
Consumatore. Oggi esiste una maggiore sensibilità e informazione sulla necessità di uno sviluppo sostenibile, ma quasi sempre i comportamenti sono ancora ancorati in quasi tutti i settori al “consumismo”: il comportamento medio dei consumatori è molto focalizzato sull’acquisto dell’ultimo prodotto di moda, più che sulla qualità. I consumatori: anche se formalmente favorevoli a una moda più sostenibile, sono praticamente “convinti” dai bassi prezzi del fast fashion. Secondo alcune indagini Il 57% dei consumatori sostiene che la “sostenibilità” di un prodotto influenza le proprie scelte di acquisto, ma solo il 23% ha l’abitudine di acquistare capi di abbigliamento certificati o comunque “sostenibili” per provenienza e produzione. Inoltre, solo il 26% dei consumatori americani si dice disposto a pagare di più per capi di abbigliamento etichettati come “sostenibili” o “environmentally friendly".
Figura 5. Le fasi dello slow fashion
Per realizzare un prodotto ecosostenibile occorre perciò coinvolgere tutta la supply chain e in particolare creare:
- stretta cooperazione con i fornitori di materie prime per condividere e rispettare gli standard sociali ed ambientali;
- controllo di tutta la catena di fornitura, ovvero sicurezza dei prodotti nelle varie fasi di realizzazione, trasformazione e trasporto, integrazione dei fattori ambientali nella filiera produttiva;
- controllo ambientale di tutti i processi (compresa la vendita) ;
- controllo dell’organizzazione e gestione della forza lavoro ;
- promuovere l’innovazione e la ricerca sui vari aspetti della catena di produzione.
Un problema essenziale per lo sviluppo dello slow fashion è la tracciabilità e certificazione di tutta la filiera. La situazione attuale è abbastanza complessa perché esistono attualmente varie tipologie di certificazioni, spesso limitate ad alcuni aspetti della filiera. La nascita nel 2011 della Sustainable Apparel Coalition ( SAC) ha cercato di colmare questa lacuna. Il progetto SAC è statao creato da un gruppo di brand importanti nel settore dell’abbigliamento e delle calzature , insieme a Enti ricerca, ONG e operatori del settore fashion/lusso e con il patrocinio dell’Agenzia di Protezione Ambientale USA con l’obiettivo di “sviluppare un settore dell'abbigliamento che non crei danni ambientali inutili e abbia un impatto positivo sugli individui e le comunità associati alle proprie attività”. Attualmente oltre 60 brand aderiscono a tale iniziativa. SAC si propone di definire:
- modalità e regole per la misurazione e la valutazione delle performance di sostenibilità dei prodotti dell’abbigliamento e del settore calzaturiero;
- promozione dell’utilizzo delle nuove tecnologie per ottimizzare da un punto di vista ambientale e sostenibile e dei nuovi modelli organizzativi e di business per lo sviluppo di una “moda sostenibile”;
- nuovi modelli organizzativi per la supply chain.
Uno dei risultati più interessanti raggiunti da SAC è stato lo sviluppo dell’Higg index, uno strumento per misurare la sostenibilità ambientale e l’impatto sociale di capi di abbigliamento e calzature, attraverso vari elementi quali i materiali, il packaging , il consumo di acqua e di energia, la produzione di rifiuti, i componenti chimici utilizzati, il trasporto , l’assistenza alla fine vita del prodotto ( figura 6). Attraverso questo indice sarà indicato sia agli operatori ( produttori, rivenditori,…), sia ai consumatori la sostenibilità di un prodotto; esso dovrebbe perciò dare un’indicazione “universale” al di sopra della parti contrariamente a quanto succede oggi in cui la sostenibilità di un prodotto viene “valutata” dal singolo produttore. In futuro l’indice sarà stampato sulle etichette degli abiti e quindi diventerà un elemento di valutazione da parte del consumatore.
L’indice di Higgs valuta tre aspetti:
- brand concept: la sostenibilità del design e dei materiali che saranno utilizzati;
- production waste: la quantità di scarti e gli agenti chimici utilizzati in tutta la fase di sviluppo di un prodotto;
- facilities module: analisi dei consumi di acqua ed energia e trattamento dei rifiuti.
L’Higg index comprende diversi strumenti di auto-assessment che possono essere utilizzati da produttori, brand e retailer per misurare i propri impatti ambientali e sociali e identificare le aree di miglioramento. I moduli di cui si compone l’indice sono di seguito brevemente presentati:
Figura 6. Gli elementi di sostenibilità dell’Higg index
In un prossimo post sarà presentata una lista di aziende italiane e non con linee di produzione che seguono i concetti dello slow fashion.
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